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Guido Garufi |
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Parlare dei miei studi universitari a Perugia, nella città del Grifo, è per me contemporaneamente bello ma anche triste poiché furono eventi piuttosto duri e pesanti che nel frattempo si verificavano nella mia famiglia, a Macerata, a richiamarmi a casa. Dico della malattia di mio fratello che non è e non vuole essere oggetto di questo ricordo, ne parlo unicamente rapporto causa ed effetto , semplice eziologia del mio abbandono, del mio allontanamento da Esculapio e dal giuramento di Ippocrate Io ero nato per la medicina, questa che è anche “arte” mi aveva affascinato fin da bambino, al punto che una mia zia ,che poi non era mia zia ma era come se lo fosse ,la solita vicina di casa, che è più importante della mamma e della nonna il cui nome era Anna durante i miei compleanni non faceva altro che regalarmi dei balocchi con particolare riferimento al piccolo chimico. Fin da bambino vedevo dunque la natura e gli altri sotto un profilo diverso, quasi fossero macchine meravigliose che funzionavano guidate chissà da quale misteriosa entità, sia essa Dio, sia la natura stessa delle cose e dell'Armonia interna alle leggi della natura La classe terza B , gloriosa classe, del mio liceo classico Giacomo Leopardi era folta: eravamo 24, è in 17 scegliemmo medicina e chirurgia e il mio più caro amico, Luca Tamburini , un vero genio che con ritardo si laureò a Roma come miglior allievo del professor Giuseppe Giunchi, preferì trasferirsi a Padova. Eravamo un bel gruppetto a Perugia e Perugia aveva un qualcosa di familiare e nello stesso tempo misterioso, vorrei dire esoterico, o comunque di etrusco per me così provinciale abituato alle dolci colline marchigiane , quelle onde a mo’ di collina che possono essere considerate un mare in retroterra, così come voleva Leopardi. Perugia dunque mi affascinava, ma al tempo stesso qualche lacrima lontana di mia madre mi abbatteva, mi faceva riflettere, ma io persistevo, cominciavo a dare gli esami, con particolare riferimento a quello di anatomia generale che nulla ha a che vedere con quella attuale, circa tremila pagine del Testut . Il professore di anatomia si chiamava Lucheroni, di aspetto bonario e soffriva d'asma. Interessanti le sue lezioni di anatomia alle ore 19:00 del pomeriggio. Si deve sapere che davanti al cadavere, ben oltre gli eventuali moti dell'animo, c'è un certo odore emanato da due enzimi, la putrescina e la cadaverina. Noi avevamo comunque delle mascherine e più tardi ,diciamo un'ora più tardi, andavamo tutti a cena. Ebbene dal piatto fumante il calore entrava dentro le narici e faceva sciogliere le molecole che avevamo inalato durante le esercitazioni. Non per motivi proustiani o di Madeleine ricordo questo fatto, ma non lo ricordo affatto con orrore o timore, Anzi andavo fiero della mia resistenza e tra i miei compagni di scuola si faceva a gara per vedere chi resisteva di più a quella" puzza". A quei tempi era il 1969, l'Italia era in subbuglio, c'erano gruppi di greci che ce l'avevano a morte con gli arabi e c'erano scazzottate a piazza IV Novembre.
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Politicamente io utilizzavo la politica solo per l'abbordaggio
femminile, cosa che si verificò più tardi anche a Macerata. Era molto
facile fare l'amore e occorrevano pochi soldi. Il sistema era semplice,
ed era più o meno questo: i padroni ci controllano e i primi padroni
sono i genitori quindi noi siamo liberi di fare ciò che vogliamo, questo
da un lato, l'altro era più interessante e più o meno diceva così: i
genitori e la chiesa controllano persino l'eros ,invece noi siamo
liberi, viva Marcuse etc, viva la liberazione… appare chiaro come fosse
molto semplice passare da Max e Freud ad una scopata, senza alcuna
spesa o investimento. Mi spiego meglio, senza tutta quella falsa
cortesia di oggi e soprattutto senza l'acquisto di oggetti, di ninnoli,
di belle macchine, che sono oggi strumenti necessari per gli approcci ,
“oggetti” che ti obbligano ad investire, a lavorare di più, insomma ad
alienarti. A quei tempi la dinamica amorosa erano pura fisiologia o
più semplicemente amore o affinità elettiva. In quel tempo le parole
magiche erano poche, pochissime, bastava una parola per includere un
intero discorso. Si potrà dire che l'amore in quel periodo fosse più
libero ma a mio avviso era più autentico di quello attuale dov'è l'altro
calcola più che l'anima il modello 740 dell'interlocutore. Perugia era
affascinante, la sera con gli amici si andava al Cantinone o al Cordobes
a Ferro di Cavallo, la matricola me la fecero presso l'Università di
agraria e nonostante gli scherni la ricordo con tanta simpatia. Perugia è
ed era una città anche civile, elegante, con quel piccolo fascino
misterioso al quale ho fatto riferimento, dico di un certo esoterismo o
magnetismo esoterico che si palpava da ogni parte. La ricerca delle
donne era pazza e disperata. Perugia ospitava una famosa Università per
stranieri i quali in genere, facevano scalo prima a Firenze per
prendere poi il treno per Perugia. Quante volte insieme al mio gruppetto
di amici miei mi ero recato a Firenze facendo finta di fare il tassista
per poi abbordare le malcapitate o ben capitate a casa. Droga ce n'era,
ma pochissima. C'erano più pugni e cazzotti, tra fascisti e l'altro
versante. Questa dualità che oggi sembra scomparsa nell'apparire in
questo trentennio di un falso bipolarismo che in verità non è che un
mettersi d'accordo il giorno prima in pizzeria. Ma come ho già
detto, dovevo assolutamente ritornare a casa per la malattia di mio
fratello, per le lamentazioni familiari e vivevo questo in un terribile
stato d'ansia e di tensione, di stress e di delusioni. Eppure andavo
molto bene almeno per i primi esami, mi affascinava moltissimo il
professor Carinci di istologia e il professor Liotti che mi pare si
chiamasse Francesco Saverio di biologia, due signori, due importanti
studiosi di medicina. Ma oltre al fatto familiare ci fu un altro trauma,
se vogliamo chiamarlo così, che mi spinse a Macerata. Passò proprio in
quell'anno la legge, a mio avviso funesta, che consentiva a chiunque
avesse fatto una scuola superiore di qualsiasi tipo di iscriversi a
medicina. All'inizio dell'anno accademico eravamo una settantina, sì e
no, ma con effetto retroattivo mi trovai quasi collassato a gennaio,
dopo le vacanze di Natale, ritornando a Perugia e trovando l'aula, la
“nostra” aula, piena di quasi 400 studenti. L’invasione barbarica era
compiuta. La mia impostazione classica, o se vogliamo l'amore per
l'impostazione in qualche modo gentiliana della scuola era andata in
fumo. Subentrava una nuova classe dirigente di cui ognuno potrà dire la
sua (a proposito di barbarie). Il De reditu di Rutilio Namaziano
del sottoscritto a Macerata, non fu traumatico, come avevo pensato
all’inizio. La “massa” cartacea da studiare era infinitesimale rispetto
ai gloriosi testi perugini. Fu una corsa senza ostacoli. Mi avvicinai
al mio professore di letteratura contemporanea, Emerico Giachery, che mi
indirizzò alla psicocritica, mi specializzai così in critica simbolica,
sul versante della stilistica. Ero stato incaricato di esercitazioni,
una sorta di assistente, ma il gioco durò poco, anche se ero l’allievo
migliore. “Altri libri occorrevano a me, non la tua pagina rombante”
scrive Montale. Così, orfano del mio professore che si era trasferito a
Ginevra, persi ben due concorsi. Di come si vincano e perdano i concorsi
presso l’Università, potrei scrivere un libro dettagliato, tra comico e
tragico. Non mi i diedi per vinto, tuttavia. Scrissi molto su autori
del secondo Novecento e facevo coppia con l’amico del cuore, Remo
Pagnanelli, che nel 1987 decise di lasciare questo porco mondo. La sua
ultima opera, ha un titolo che la dice lunga Preparativi per la
villeggiatura. Questa si che per me fu una perdita, forte, indelebile,
tanto quanto la malattia di mio fratello Mario. Non ho mai amato fino
in fondo Macerata. Sento, ma forse è mia impressione, certamente
sperimentata, una latente ipocrisia e introversione, una tendenza alla
malinconia. Il mio primo libro, non di critica, ma di versi, introdotto
da Mario Luzi, si intitola Hortus. E’ il tema della ripetizione e della
circolarità. Ed è così che io vedo\sento il mio piccolo paese, in cima
alla collina, qualcosa a metà strada tra sequestro e protezione. Aveva
scritto di questo, anzi cantato Jimmy Fontana, “la noia, l’abbandono e
il nulla son la tua malattia, paese mio ti lascio e vado via”. Passati
tanti anni mi rincuora, la cosa è buffa, pensare che i più grandi
viaggiatori sono stati sempre, se si vuole, immobili. Penso ad un
gigante come Kant che mai, neppure un giorno, si allontanò dalla sua
Konigsberg, a Salgari che scrive di tigri ed indiani, avendo in tutto
fatto quattro passi intorno alla sua casa. Beh, spero di stare sulla
stessa strada. |
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30/01/2018 14:47:39 |
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