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Maurizio Verdenelli |
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Eleonora Chiavarelli Moro (Montemarciano), Domenico Ricci (Staffolo), Mario Moretti (Porto San Giorgio), Filippo Bartoli (Serravalle di Chienti), Mario Baldassarri e Jimmy Fontana (Macerata), Pasqualina Pezzolla (Civitanova Marche) e l’ex questore maceratese, Paolo Passamonti, il primo a giungere in via Fani qualche minuto dopo il sanguinoso agguato
“Ma quella… è la macchina del babbo, quella che ci hanno rubato sei mesi fa!” esclamarono nella loro casa di Roma le piccole Anna Rita e Maria Pia Bartoli, figlie del serravallese Filippo, quando il 9 maggio 1978 la Tv trasmise immagini che a distanza di 40 anni sono ancora nel cuore e nella mente di tutto il Paese. “Sì, proprio quella!” confermò la madre Pasqualina Fedeli, mentre il marito si mostrava dubbioso: “Com’è possibile?!”. In effetti tutto poteva sembrare incredibile per quel bravo imprenditore marchigiano da anni a Roma per lavorare: nel bagagliaio della sua R4 rossa, il corpo dello statista che tutto il mondo cercava da 55 giorni dopo il sequestro in via Fani e il massacro della scorta guidata dal maresciallo Oreste Leonardi. Già Leonardi e Moro erano quasi di casa nel paesino al confine dell’Umbria: il presidente (che aveva anche inaugurato il monumento alla Resistenza) era paziente del celebre professor Giuseppe Giunchi, recanatese, serravallese d’adozione (fino ad essere il sindaco del comune) con villa a Dignano dove di ritorno da Roma, viveva nei fine settimana con la moglie, originaria del luogo. Una villa prospiciente a quella di Filippo Bartoli! Marche e tanta Macerata nel caso Moro. Di Porto San Giorgio è Mario Moretti, il numero uno delle Br responsabile del rapimento e della fine del presidente della Dc e della sua scorta: ora in regime di semilibertà, Moretti che sconta sei ergastoli, si occupa del recupero degli ex detenuti ndr. Moretti, negli anni di piombo, aveva organizzato un covo pure a Porto Recanati all’interno di quell’eterno alveare che è stato sin dalla ‘nascita’ l’Hotel House. Ed era di Civitanova Marche, finch’è vissuta, Pasqualina Pezzolla anche lei finita in questa vicenda perché richiesta di far luce sulla ‘prigione del Popolo’ dov’era detenuto lo statista dc. Che nel 1945 a Montemarciano (Ancona) si era sposato con Eleonora Chiavarelli, del luogo, di un anno maggiore di lui (nata nel 2015 la signora è morta nel 2010): dieci anni fa il comune ha ricordato quell’avvenimento conferendo la cittadinanza onoraria ad Eleonora presente l’allora governatore Gian Mario Spacca, allievo di Moro e relatore alla sua tesi di laurea. “Non c’è una cittadinanza onoraria delle Marche, perché quella sarebbe ora da conferire alla signora Eleonora” aveva detto Spacca. Ed Agnese Moro, la figlia aveva ricordato la madre (assente alla cerimonia a causa di un brutto incidente con frattura): “Mia madre si è sempre definita un ‘contadino marchigiano’ ispirandosi agli stessi valori di operosità, pulizia ed onestà che hanno contraddistinto questa fondamentale figura d’italiano”. E marchigiano di Staffolo a cavallo tra Macerata ed Ancona era Domenico Ricci, uno degli ‘angeli’ del Presidente ucciso per primo insieme con Leonardi dalle Br nell’agguato di via Fani. Una vita accanto a quella di Moro, dalle 4 del mattino (un’ora e mezzo per raggiungere attraversando tutta Roma l’abitazione dei Moro) fino alle 23. Ricci è ora seppellito a San Paolo di Jesi. Ed è stato questore di Macerata (nominato nel 2006) il dottor Paolo Passamonti, abruzzese di Pineto: fu il primo a raggiungere via Fani quella mattina intorno alle 9. Aveva appena 25 anni il dottor Passamonti, allora vice dirigente del nucleo Volanti a piazza Cola di Rienzo a Roma. Dall’auto di servizio sentì ‘gracchiare’ la radio di servizio ‘Portarsi in via Fani, c’è stata una sparatoria’. “Pensai a colpi esplosi da metronotte, come talvolta accadeva, per sventare un furto o una rapina. Ma quando arrivammo ci accorgemmo della tragedia. Un anziano ci gridò due volte, in preda a choc: ‘Hanno rapito Moro!’. Lo feci sedere nella mia auto. Della scorta, Leonardi e Ricci erano già stati freddati, gli altri avevano ancora gli occhi sbarrati e rivoli di sangue dappertutto: agonizzanti. Chiusi loro gli occhi. L’emozione mi travolse, avevo 25 anni: piansi mentre arrivavano altre auto della Polizia. Ho sempre dentro di me quella scena, mi accompagnerà per tutta la vita. Ogni volta che torno a Roma, vado in via Fani con miei figli e lascio talvolta un fiore”.
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Ed è maceratese doc il professor Mario Baldassarri, senatore, economista
(docente a La Sapienza) già viceministro dell’Economia delle Finanze,
‘padre’ riconosciuto della superstrada Valdichienti, un altro grande
testimone del caso Moro. Appartenne a quel giro stretto attorno a
Prodi, in quei terribili 55 giorni in cui Roma appariva avvolta in un
sudario agonico e sui muri dei palazzi apparivano scritte angosciose in
riferimento agli ultimatum delle BR (“Ore 15: salvate Moro!”). Un giro
del quale insieme con Prodi e Baldassarri, allora docente all’ateneo di
Bologna, fece parte Alberto Clò in casa di quest’ultimo sui colli
intorno al capoluogo emiliano. Un giro riunitosi per quell’ormai
celebre, unica seduta spiritica in cui apparve per la prima volta il
nome ‘Gradoli’. Un’indicazione preziosa che l’Unità di Crisi che cercava
Moro utilizzò malamente: scambiata per il paesino laziale, segnalava
invece la via di uno dei covi delle BR Ed era di un altro maceratese
illustre, il cantante Jimmy Fontana (che, appassionato di armi,
l’acquistata negli anni 70 a Saint Vincent rivendendola poi venduta ad
un ex poliziotto) la Skorpion di Valerio Morucci. La micidiale
mitraglietta era finita nelle mani del capo brigatista probabilmente
acquistata in un’armeria romana e sarebbe servita per uccidere l’ex
sindaco repubblicano di Firenze, Lando Conti, l’economista Enzo
Tarantelli e due giovani del fronte della Gioventù ad Acca Larentia, nel
gennaio 1978 due mesi prima dell’agguato di via Fani. La Skorpion fu
poi rinvenuta in un covo delle Br, là depositata forse dallo stesso
Morucci che trasportò il corpo di Moro nel bagagliaio della R4 rossa poi
abbandonata in via Caetani. E fu ancora Morucci ad avvisare
telefonicamente il prof. Franco Tritto dove avrebbe fatto la macabra
scoperta. Che quell’auto rossa ripresa da tutte le tv in quella
tragica giornata del maggio 1978, fosse realmente sua si dovette
purtroppo convincere in serata Filippo Bartoli (morto nel natale del
2013) quando, raccontò la moglie, ‘lo vennero a prendere gli agenti
della Questura’. Gli dissero: “Lei è Bartoli? Venga con noi alla
Centrale…”. Tuttavia Bartoli, con sarcasmo tipicamente marchigiano,
cercò di sdrammatizzare: “Che? …del Latte”. Gli agenti risposero con
mozziconi di parole che non promettevano nulla di buono. Il serravallese
fu rilasciato solo alle 4 del mattino, dopo essere stato rovesciato
come ‘un calzino’. Ma non solo quella volta. Altre volte l’imprenditore
trapiantato a Roma fu convocato in istituti di pena per vari confronti
con i brigatisti detenuti. Agli amici serravallesi raccontava: “Ogni
volta una gran paura: temevo infatti di cadere vittima di qualche errore
o falso riconoscimento…”. In effetti, con la legge Reale non si
scherzava allora e molti erano state le vittime di un periodo dove il
terrorismo aveva costretto lo Stato ad assumere poteri che non
garantivano del tutto il cittadino. “Ci fu una volta che credetti giunto
quel momento tanto temuto: a Rebibbia, mi sentii ‘riconoscere’: alle
mie spalle qualcuno esclamò: Bartoli! Mi voltasi con il cuore in gola:
sentivo già il tintinnio delle manette e il cigolio della cella che
s’apriva. Per fortuna era un cuoco del carcere, mio vecchio compagno
d’arme che mi aveva riconosciuto! Lo abbracciai con gioia e sollievo:
ero salvo!”. (1/continua) |
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14/03/2018 22:06:33 |
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