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Diego Antolini |
Fonte: Punto Zero N.10 (Nexus Edizioni) |
La nuova offerta di cooperazione globale avanzata dalla Cina praticamente subito dopo il lancio del BRI (o Nuova Via della Seta) si chiama Global Energy Interconnection o GEI. Il governo di Pechino ha deciso che, per ottemperare alle indicazioni ONU contenute nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il modo migliore è quello di rivoluzionare radicalmente la distribuzione dell’energia nel mondo attuale. Non più basata sui grandi monopoli petroliferi o sulla sperequazione delle risorse che lasciano quasi totalmente scoperte molte aree dei paesi non industrializzati. La soluzione si chiama “Smart Grid”, cioè l’implementazione di una rete di distribuzione energetica globale che consentirebbe a tutti i paesi di ricevere la quantità di energia sufficiente al fabbisogno interno. Una cooperazione che non solo ridurrebbe gli idrocarburi al rango di fossili, ma che utilizzerebbe energia pulita a costi sostenibili e favorirebbe l’inclusione dei paesi meno sviluppati in un progetto ambientale che è sicuramente una priorità assoluta per i paesi industrializzati. Ma qual è la scienza e la tecnologia dietro lo “Smart Grid”? Cosa si conosce esattamente del programma cinese e quali sarebbero gli “effetti collaterali” sotto l’aspetto geopolitico per i paesi coinvolti e, soprattutto, per quelli che fanno del petrolio la loro risorsa economica principale? Perchè gli USA, la Francia e il Regno Unito conservano un freddo distacco nei confronti del GEI?
Il 26 settembre 2015 il presidente Xi Jinping, parlando al UN Sustainable Developing Summit di New York City (USA) ha annunciato che la Cina proporrà discussioni per stabilire un meccanismo di “Interconnessione Globale Energetica” così da facilitare gli sforzi per rispettare la domanda di energia globale nel rispetto delle alternative di energia pulita. Così la Cina ha ufficialmente aderito all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. In qualità di membro chiave dell’ONU, la Cina dovrà fornire una guida allo sviluppo nazionale degli stati membri e cooperare a livello internazionale nel settore dello sviluppo per i prossimi 15 anni.
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L’annuncio di Xi Jinping proviene però da più lontano, e cioè dal nuovo
corso strategico che il Partito Comunista aveva previsto già con Den
Xiaoping, ma che ha reso necessario un assestamento strutturale
(socio-economico e tecnologico) per essere implementato. Il GEI
(Global Economic Interconnection) è solo una parte di un programma più
vasto che si interseca, ad esempio con il monumentale BRI (Belt Road
Initiative) e altri progetti non ancora annunciati (uno di essi riguarda
la corsa allo sfruttamento delle risorse spaziali). Su entrambe le
iniziative si conosce molto poco. Le informazioni ufficiali arrivano dai
summit e dalle dichiarazioni che il governo cinese ha prodotto negli
ultimi due anni. Ma le interpretazioni che i paesi occidentali danno
alla strategia cinese non paiono dare l’idea di una piena consapevolezza
sulla portata non tanto geopolitica, ma tecnologica, economica e
scientifica.
Il 2016 è stato un anno cruciale per la Cina, mentre
l’altra potenza mondiale, con l’elezione di Donald Trump, abdicava ogni
velleità di supremazia geopolitica per tornare ad un protezionismo
nazionalista che solo oggi comincia in parte a rivelarsi. Così il Drago
ha lentamente avvolto tra le sue spire i mercati da cui partire per il
nuovo riassetto del mondo: Asia e Africa. Ho letto su fonti
occidentali che il GEI è un’iniziativa voluta dall’ONU ma, in realtà, si
tratta di una proposta esclusivamente cinese, il modo che la potenza
asiatica ha scelto per aderire all’Agenda 2030 (quella si, determinata
dalle Nazioni Unite) e alla quale l’organizzazione internazionale non ha
voluto (o saputo) dire di no. Questo passaggio ridisegna tuttavia i
ruoli geopolitici tra organizzazioni sovranazionali e nazioni aderenti, e
tra le stesse nazioni che formano l’ONU. Con questa mossa la Cina si è
ritagliata un ruolo predominante all’interno della scacchiera economica e
tecnologica del mondo, dimostrando come sia possibile utilizzare
organizzazioni internazionali a proprio vantaggio e in modo
assolutamente “pulito”. Questo conferma i dubbi di chi, negli anni, ha
visto in tali organizzazioni prive di un vero potere decisionale nelle
questioni critiche tra nazioni.
D’altra parte avere a che fare
con un Paese, la Cina, con più di 5000 anni di storia, capace di
mantenere compatta una nazione di quasi 1.5 miliardi di persone, di
farla esplodere economicamente e tecnologicamente, fino ad assumere un
ruolo predominante in occidente (non siamo ancora a quest’ultimo livello
ma i segnali ci sono tutti) non è semplice, per via soprattutto del
fatto che le nazioni occidentali, sin da quando sono entrate in contatto
con l’impero cinese, hanno anteposto il proprio ego imperialista ad un
vero e proprio tentativo di comprendere questa nazione.
Ancora oggi,
pochi sono i paesi occidentali che possono dire di capire le strategie
cinesi: un esempio è la relazione tra Cina e USA. In occidente è in
corso da anni una campagna denigratoria e propagandistica che dipinge il
Paese comunista come una minaccia per gli Stati Uniti, dove il primo
cercherebbe in tutti i modi di destabilizzare il secondo per conquistare
territori economici e il controllo sulle risorse globali. La mia
visione della situazione, nei dodici anni di affari tra USA e Cina, è
che invece la Cina non ha questa ossessione. La Cina crede da sempre di
essere il centro del mondo (Zhong Guo, 中国, significa infatti terra nel
mezzo) e, come tale, un’aggressione verso altri paesi non sarebbe
onorevole della sua posizione di guida assoluta. Nella mentalità cinese
gli altri paesi vanno guidati, “illuminati” dalla luce del drago. Questa
è una delle ragioni (detto in modo molto semplicistico) che stanno alla
base del BRI e del GEI.
[CONTINUA]
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30/01/2019 00:06:48 |
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